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Lettera di uno che sa di non sapere

in Primo Piano/Uncategorized by

Chi vi scrive ha avuto la fortuna di viverli gli ospedali.

E la fortuna sta nel fatto che ho potuto apprezzare la grandezza umana dei medici e degli infermieri, che non finirò mai di ringraziare. Ho sempre pensato che fare il medico, così come l’insegnante, fosse una missione. Devi sacrificare la tua vita per un messaggio, per una causa che ritieni giusta. Tanto di cappello. Ho potuto constatare l’umanità che si cela dietro gli occhi di quelle persone che ti portano in una sala operatoria, senza sapere come saresti uscito. Nelle varie notti tra le mura bianche ho ascoltato il silenzio che sussurrava la propria incolumità ad un altare che non esisteva. Il clima era assopito: sembrava esserci quiete – quiete ovunque – e i secondi diventavano ore, specie quando guardavo fuori quella maledetta porta, immaginando cosa stesse accadendo ad altre persone. E nella mia fortuna la dea bendata ha avuto pietas. Non sono qui a cercare attenzioni e nemmeno altrui compassione. Voglio soltanto che ci si renda conto.

Parlavo di pietas, un sentimento a mo’ di vela spiegata ad un vento del mai più. Ognuno a curare il proprio orticello, fino a quando quel maledetto uragano colpirà. E state certi che arriva la tempesta. Siamo particelle di un mondo che non è nostro. Memento. E quando la tempesta arriverà, sarà “échec et mat“. A febbraio ho potuto scrutare nei volti delle persone paura e ansia: si affrontava un qualcosa di profondamente sconosciuto ed è normale che il primo impatto sia una leggera carezza. Hai bisogno di prendere fiducia con le cose, di osservarle e viverle. Abbiamo vissuto mesi difficili, senza ombra di dubbio, ma, allo stesso tempo, non abbiamo imparato assolutamente nulla. Marzo e compagnia dovevano essere i mesi della riflessione, i mesi nei quali ricongiungersi con la propria essenza. D’altronde viviamo nel paese delle polemiche. Siamo una repubblica fondata sulle polemiche.

Quelle stesse polemiche che ci portano a considerare libertà fare ciò che si vuole, fregandosene di ciò che accade nel mondo. Ho sempre avuto una sensibilità particolare nell’affrontare gli eventi mondiali: mi sono sempre chiesto “e se ci fossi io? E se fossi stato io al loro posto?”. Chiaramente non esistono risposte, ma solo sguardi verso un orizzonte che, maestoso, di risposte non ne ha. E allora pensiamo alle vite degli altri. Cosa sarebbe questa famigerata libertà? “Signora libertà, signorina anarchia“, cantava Fabrizio De Andrè. “Se ti tagliassero a pezzetti”, il mio brano. Ho sempre pensato che la libertà più grande fosse quella del confronto, del dialogo, dei pensieri diversi. Ed ho sempre pensato che, per bene e amore della stessa, si dovesse progredire e mai accontentare. Un percorso senza fine scritta. Un labirinto dei sè. Ed allora quella stessa libertà – che io amo – diviene cenere e ombra, diviene rispetto per l’altrui.

Vorrei un mondo che pensasse meno al proprio orticello e più ad un’idea immensamente utopica e grande. Vorrei che l’umanità non si fosse fermata e persa nei meandri d’un sogno. Ho visto Napoli, Firenze, Milano, ribellarsi ad un possibile nuovo stop. Ho visto quegli stessi imbecilli distruggere ciò per cui “combattevano”. Ed è lì, in quell’istante, che la famigerata libertà ha chiuso il sipario ed è andata via. Per sempre. Ho visto il cielo rossastro voltare le spalle ad un popolo che combatte una guerra sbagliata. Ed ho capito che a Marzo non abbiamo imparato assolutamente nulla. Ho capito che le bare di Bergamo saranno sempre poche agli occhi del menefreghismo, del pressappochismo e del qualunquismo altrui. È importante dare da bere al proprio orticello. Infimo. Banale. Ed ho visto le immagini di pazienti a terra negli ospedali, gettati come fossero l’ultimo dei rifiuti. Dove sarebbe la vostra famigerata libertà?

Non voglio fare morali, non ne sarei in grado e non ne avrei il diritto. Voglio soltanto che ci sia rispetto per la salute degli altri. Voglio che ci sia un qualcosa ancora in cui credere. E non voglio la fede. Non avrei tempo per dei e altri invitati. Ho visto gente esultare per un colore. Ed anche lì si è fermata la libertà: siamo tutti coinvolti, è un qualcosa più grande di noi. Siamo stati capaci di ridurla all’osso. Per un drink e per un po’ di svago. Non siamo capaci di fermare questo scempio, ma siamo bravi a metterci sui divani ed urlare come scimmie che è colpa di quello o dell’altro. Non siamo mai bravi a prenderci delle responsabilità: perchè, parliamoci chiaro, non sappiamo nemmeno cosa sia il coraggio. Sempre troppo attenti a mettere foto sui social di quanto sia bello il mare e di quanto sia assolutamente vitale fare feste per matrimoni, lauree e compleanni. Non siamo mai attenti agli altri, alle ombre che si nascondono dietro un viso, ai dolori di chi ci passa vicino e ci sorride. Siamo sempre troppo bravi a far fiorire quel nostro maledetto orticello. Di fango e nulla. Per non vedere più quelle immagini di Torino, per combattere questo uragano, servirebbe un minimo. Una minuscola parte infinitesimale, cioè quel che siamo e saremo per sempre. Uno schizzo di un quadro mai finito. Quell’uragano è vicino, pronto a ritornare. Ed ogni orticello verrà spazzato via, dimenticato. E il solo pensiero di dimenticare una vita perchè meno importante è roba che mi fa rabbrividire. Ed io chi sarei per scegliere la morte di uno o dell’altro? Chi mi ha dato questo diritto di poter scegliere? La mia ribellione? A cosa? Ad un minuscolo virus che ci ha lacerato e continua a farci sanguinare? Non ho mai capito la gerarchia delle vite. D’altronde chi vi parla si è ribellato ad una sola cosa nella vita: la vita stessa. Ho bisogno del mio monologo, le lancette corrono. Voglio lacerare anche io, il tempo e quello scorrere. Non ho bisogno di gridare: la mia è solo una sussurrata preghiera.

D’altronde io so di non sapere nulla. Tant’è: queste parole non cambieranno il mondo e nemmeno una minuscola parte di esso. Spero possano solo lasciare un segno e aiutare: c’è ancora spazio per un briciolo d’umanità.

Francesco Antonio Ricciardi

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