Va in onda la morte, e poi: pubblicità!

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Ci abituiamo a tutto. Ma proprio a tutto.

Al dolore, alla paura, alla sofferenza, alla noia, all’amore, ci abituiamo alle persone invece di riscoprirle giorno dopo giorno. Ci abituiamo alle belle notizie come a quelle brutte. Ci abituiamo anche alle pandemie, alle guerre (soprattutto se lontane), ci abituiamo ai capi insopportabili, alle mamme ultra apprensive, ci abituiamo a qualsiasi cosa e a qualsiasi cosa ormai siamo abituati. Persino alla morte. Alla morte ci abituiamo presto perché è attorno a noi, è dappertutto e ne siamo consapevoli. Alla morte ci abituiamo perché è così: si va avanti, la vita è una sola, la vita è una sofferenza, inutile starci a pensare. Ci abituiamo persino alla morte e si può vedere come è facile abituarsi alla morte: sei mesi fa, non anni fa, piangevamo i seicento/settecento morti giornalieri da coronavirus. Ora, quel dato che abbiamo tristemente raggiunto di nuovo, è un numero. Semplicemente un numero. E c’è persino chi dice che non esistano quei morti. Che non siano persone. Che non fossero nemmeno malati, pur essendo morti.

Ci abituiamo a tutto. Alla sfilata di camion militari con le bare di Bergamo. Alle ambulanze fuori dagli ospedali in attesa di poter portare i malati al reparto. Ai messaggi di sconforto e speranza che arrivano dai laboratori di ricerca. Ci abituiamo.

Come ci siamo abituati alle persone, (“persone” è bene specificarlo) che muoiono, ancora, ogni giorno, nel Mediterraneo.

Casa nostra.

Noi, figli di figli di esseri vissuti in una terra sconfinata che un giorno decisero di attraversare quel Mare, ci siamo abituati a chi muore in mare. Ogni giorno.

A chi muore per lasciare casa.

A chi muore e lascia amici, fratelli, sorelle e genitori. Li lascia in una terra lontana e senza notizie. Senza nemmeno un saluto.

A chi muore per una vita migliore. Perché sa che la vita non può essere solo sofferenza e spera in qualcosa di più umano.

A chi muore perché non si riesce ad abituare a vivere in guerra. O nella povertà.

A chi muore manco per se stesso, ma per salvare la vita di chi gli sta vicino.

A chi non muore, ma dovrà convivere per sempre con la morte di suo figlio.

Un figlio piccolo, piccolissimo, di soli sei mesi. Sei mesi. Sei mesi di vita equivale ad soffio. Ad uno spiraglio sul futuro. Una luce tenue di esistenza bagnata via dall’acqua. Prima da quelle salate del mare, poi dalle lacrime di una madre. Una madre che soffrirà ogni giorno della sua vita per aver voluto concedere a suo figlio un futuro. E c’è chi gliene farà una colpa, essendo abituato da una vita a trovare il peggio dalle altre persone.

Ci siamo abituati a questo. Si è abituato anche l’algoritmo di un famoso social network, forse avrà preso spunto da noi. Nel famoso video di Open Arms in cui la madre del piccolo urla disperata per la sua scomparsa in mare, l’algoritmo suggerisce poi di guardare gli highlights di una partita di calcio di otto mesi fa.

Ci siamo abituati a tutto.

E ci giriamo costantemente dall’altra parte. Ogni giorno. Per non guardare, per non pensare, per non ricordare, per non dover abituarci all’idea che quella madre, quel figlio, potevamo essere noi.

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Davide Paolino