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“Viva l’Italia, viva la Repubblica!”: le “nozze di diamante “tra il popolo e l’Italia

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“Quest’anno corre il settantacinquesimo anniversario del 2 giugno 1946, una data storica per l’Italia e per il mondo: l’Italia diventa una repubblica, libera e democratica, fondata sul lavoro.

La Monarchia Sabauda viene largamente sconfitta nel referendum istituzionale e, nonostante le prime resistenze del “re di maggio”, deve abbandonare la penisola. A nulla è servita la callida abdicazione tardiva del compromesso Vittorio Emanuele III.

Gli italiani, e le italiane, perché per la prima volta votarono anche le donne, decretarono la fine della monarchia e scelsero una forma di stato che vede il popolo come unico depositario della sovranità e le istituzioni come espressione di questa sovranità.

Dopo 75 anni, ben tre quarti di secolo, le “nozze di diamante” tra popolo italiano e repubblica meritano qualche considerazione.

La prima: mai in tanti secoli, dalla caduta dell’Impero Romano, l’Italia ha goduto di un così lungo periodo di pace.

Durante la monarchia, che ha esercitato il suo potere pienamente dal 1861 al 1922, o, al meglio, fino al 1925, l’Italia ha combattuto varie guerre: la guerra contro l’Impero Asburgico nel 1866 a fianco della Prussia; le guerre coloniali; la prima guerra mondiale.

Due di queste si sarebbero potute evitare con accordi diplomatici, essendoci stati offerti dall’Austria-Ungheria, in cambio della neutralità, il Veneto nel 1866 e il Trentino nel 1915, ma in entrambi i casi prevalsero gli “spiriti bellicosi” di una esigua minoranza e, nel secondo caso, la politica “parallela divergente” del sovrano, incapricciatosi per la guerra.

Dalla guerra del 1866, l’Italia uscì umiliata per essere stata sconfitta, per terra, a Custoza, da truppe austriache largamente inferiori per numero e, per mare, a Lissa, da una flotta che contava meno della metà delle unità italiane, “perfettamente” condotte al disastro da quel Persano, promosso ammiraglio per raccomandazioni reali.

Dalla guerra mondiale, l’Italia uscì delusa dal trattato di Versailles che non le riconobbe ciò a cui – improvvidamente – era stata spinta ad aspirare da governanti senza scrupoli e bravi ad agitare le folle con promesse magniloquenti ed irrealizzabili, non dopo aver rischiato di essere sconfitta, invasa e smembrata nella sua recente unità nazionale, dopo la rotta di Caporetto, i cui responsabili maggiori non furono neanche puniti perché prossimi alla casa reale.

La crisi postbellica permise l’incubazione del fasciscmo, cui il solito re di alta statura morale non volle opporre alcuna resistenza, rifiutando, dopo averlo promesso, di firmare lo stato d’assedio. Il resto lo si può addebitare anche al fascismo senza, però, dimenticare la complicità reale e la fuga dell’8 settembre 1943 che lasciò l’esercito italiano sbandato e la popolazione inerme alla mercè dei tedeschi. Il coraggioso monarca, tra l’Italia e se stesso, scelse, come sempre, se stesso.

Per contrasto il pensiero non può che andare alla scomparsa regina madre inglese che, al Primo Ministro Churchill che le chiedeva di lasciare, insieme alle principesse, Londra, sotto i bombardamenti tedeschi, rispose chiedendo dove sarebbe andato il re. Quando Churchill replicò che il posto del re era a Londra col suo popolo, lei, immediatamente e senza tentennamenti, soggiunse che il posto della regina era affianco al re e quello delle principesse con la madre e il padre, ponendo fine alla discussione una volta per tutte. E’ storia che l’attuale regina Elisabetta, adolescente, uscisse ogni mattina a soccorrere i feriti e che avesse imparato anche a guidare i camion per aiutare i suoi connazionali.

Le donne espressero, per la prima volta, il loro voto il 2 giugno 1946 e contribuirono ad eleggere ventuno donne all’Assemblea Costituente, tra cui la futura Presidente della Camera Nilde Jotti. I tanto laici liberali, in tanti anni di ininterrotto governo, non avevano mai concesso il voto alle donne: ci vollero popolari, repubblicani, socialisti e comunisti, rinati dalle ceneri del fasciscmo e della guerra, per riconoscere tale diritto all’altra metà del popolo.

In questi tre quarti di secolo, l’Italia è cresciuta economicamente e socialmente come mai prima, fino a collocarsi tra i primi dieci paesi al mondo. Nonostante corruzione, tentazioni autoritarie, stragi, terrorismi e mafie, è rimasta integra, libera e democratica e questa è una prova storica della sua notevole resistenza.

Se si condivide la stessa tesi monarchica, secondo cui il fascismo avrebbe esautorato del tutto il sovrano, la repubblica italiana è durata già più a lungo della monarchia italiana, che non raggiunse neanche i settant’anni, ed ha ripetutamente doppiato la durata del fascismo, che si fregiava di aquile e allori imperiali, nostalgico di una gloria lontana ed inattingibile.

Un popolo di contadini analfabeti si è evoluto in una società pluralista ad economia avanzata e tutto questo è accaduto durante la repubblica e, per quel che è dato sapere dei nessi di causalità storica, grazie alle conquiste repubblicane. Quello che fu il sogno di Mazzini e Garibaldi si è incarnato in una repubblica che, pur non scevra di difetti e spesso in crisi, è la nostra figlia – perché l’abbiamo creata noi, attraverso i nostri genitori e i nostri avi – e nostra madre, perché ci nutre e ci educa.

Pablo Neruda, nel suo libro di memorie, racconta che un giorno il presidente cileno Salvador Allende, affacciandosi al balcone del palazzo del Governo, abbia visto un manifestante che agitava un cartello con su scritto: “Este gobierno es un gobierno de mierda, pero es mi gobierno” e sia sceso di corsa in strada ad abbracciarlo, per poi spiegare a chi glielo chiedeva che quello era il modo giusto di fare in politica: criticare il proprio governo, ma apprezzare il fatto che sia espressione democratica di un popolo libero di scegliere, appunto quello che il popolo cileno non fu più per molti anni, dopo il colpo di stato del generale Pinochet.

Anche noi, in Italia, abbiamo rischiato di finire come il Cile, ma, fortunatamente, non è andata così e, nonostante alcuni tentativi di destabilizzazione, siamo ancora cittadini di un libero stato democratico, nato dalle macerie di una guerra che, ad un certo punto, divenne anche guerra civile.

Della libertà e democrazia si comprende appieno il valore spesso solo quando vengono meno o sono seriamente minacciate. Questa è la sfida sociale e culturale del nostro tempo, se vogliamo arrivare a doppiare e poi ancora superare il già ambizioso traguardo raggiunto: lavorare per rafforzare la libertà e la democrazia: nei luoghi di lavoro, nell’organizzazione sociale e politica, nell’attività economica, nella giustizia e sicurezza pubblica. E le istituzioni educative hanno un compito fondamentale: formare non solo i futuri produttori del sistema economico, ma, prima ancora, dei cittadini consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri. Non va dimenticato che forse il più grande profeta della repubblica in Italia, Giuseppe Mazzini, scrisse dei doveri dell’uomo, prima e più che dei diritti, ritenendo che in una società repubblicana, ognuno dovesse fare la sua parte per i bene della società.

Il 25 aprile, il 1 maggio e il 2 giugno, queste tre ricorrenze così prossime l’una all’altra, debbono formare la corona civile del nostro tempo per garantire un futuro degno di essere vissuto alle prossime generazioni.

Viva l’Italia, viva la Repubblica!”.

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