L’EDITORIALE di Antonio Arricale – Non so a voi, ma a me cadono le braccia di fronte a certe scene di “politica politicante”, come direbbe Vincenzo De Luca.
Ché di questi si parla, oggi: del presidente che ha guidato per dieci anni la Regione Campania, la terza d’Italia per importanza (non soltanto demografica). E che, forse, sarebbe rimasto in sella anche per un altro lustro, se non fosse stato disarcionato da una sentenza costituzionale che è figlia – diciamoci la verità fino in fondo – di un papocchio politico: vale a dire, la modifica del Titolo V della Carta. Una riforma, che in forza di un malinteso senso di esaltazione delle Autonomie Locali, ha scombussolato e sovente affidato al caos interpretativo le regole gerarchiche dell’architettura statuale.
Il riferimento non è casuale. Recupero, infatti, questa mia considerazione guardando una fotografia in cui Dario Franceschini – ex ministro, uno degli esponenti della “nouvelle vogue” di quello che fu Cattocomunismo e ora è Pd, e tra i massimi propugnatori, appunto, di quella scellerata riforma – si ritrova alle spalle, nel ruolo di suggeritore – pensate un po’ – il deputato Stefano Graziano. Il quale – giusto per dire – a De Luca deve non poco della sua fortuna politica, prima di indossare i panni di Bruto.
Entrambi, aggiungo, in compagnia di altri due emissari romani che in Campania non hanno nemmeno il loro voto: Davide Baruffi e Igor Taruffi. Nomi che, probabilmente, molti lettori sentono per la prima volta, ma che già da soli esprimono tutto un programma: Baruffi e Taruffi, appunto.
E ce n’è anche un altro nella compagnia: il più tristemente noto – questo sì, per la non proprio felice gestione dell’emergenza Covid – Roberto Speranza.
Inutile aggiungere: tutti calati a Napoli per dare il benservito a De Luca. Al quale – con tono perentorio da centralismo democratico – hanno detto che non potrà esserci trattativa in vista della prossima contesa elettorale in Campania. Insomma: non ci servi più, sei fuori gioco, questa la sostanza del tono. Da autentici maleducati. E però compiendo, nell’ordine, due errori, anzi tre. 1) Pensano – maldestramente – di poter calare da Roma e dare ordini, loro che non hanno voti, a chi invece i voti ce li ha. 2) Approfondiscono, così facendo, il solco che già da tempo li separa dalla periferia e mostrandoceli come un’élite che è già lontana anni luce dalla gente, che infatti non li vota più. 3) Manifestano di possedere neanche lontanamente le regole minime della grammatica politica. Arte finalizzata, come si sa, alla ricerca del consenso e non a farsi pericolosi quanto inutili nemici.
De Luca è un politico di razza, capace di manovre ardite e, soprattutto, di parlare alla pancia della gente.
Sa bene (e non ne ha fatto mistero) che il candidato 5S Roberto Fico, deciso a tavolino da Elly Schlein e Giuseppe Conte, e che non a caso tutti vedono col fumo negli occhi, ha poca o nulla possibilità di essere eletto.
Non solo, a Santa Lucia, non potendo De Luca ritornarci, vedrebbe bene (anzi, utile) un suo uomo. Ad ogni modo, comunque vadano le cose – con lui dentro o fuori dai giochi – resta una figura ingombrante. Capace di condizionare, in un senso o l’altro, il risultato elettorale. Certo gli difetta la modestia, ma non i voti. E questo lo sanno – mi auguro – anche i Carneade venuti da Roma.
Ai quali – giusto per notare – oltre ai voti manca sicuramente anche il bon ton. O, se preferite, l’educazione. La qual cosa, talvolta – come si insegnava nella Prima Repubblica – non è soltanto questione di forma. Anzi.
In alto, nella foto tratta dal Mattino di oggi: Stefano Graziano con Dario Franceschini